Chi siamo

Il Carpaccio rappresenta la realizzazione di un mio sogno.
Ho sempre desiderato avere un ristorante tutto mio, da gestire insieme alla mia famiglia, coinvolgendo mia moglie Melania, che mi affianca nelle fatiche del ristorante. Questo progetto è nato quando ho conosciuto Nunzio Pace, un famoso pizzaiolo comisano, e da lì ha cominciato a prendere concretezza: dopo aver rilevato la gestione del locale ho avviato la ristrutturazione secondo i racconti di Tito, così col mio designer partendo solo dai suoi racconti e nulla di più abbiamo cercato di tirare fuori la storia del palmento, utilizzando delle serigrafie e delle immagini.Nella ristrutturazione abbiamo lasciato la semplicità e la povertà dei materiali utilizzati, tavoli realizzati con assi invecchiate dalla storia, portando avanti l’invecchiamento della materia prima, il legno nuovo che diventa vecchio col passare degli anni. Lo stesso avviene per la mise en place, semplici tovagliette, nulla di formale.

Lo spirito con il quale prepariamo i piatti è di offrire ai nostri clienti delle pietanze del tutto uguali a quelle che mangerebbero a casa loro, utilizzando prodotti freschi acquistati quotidianamente dal fruttivendolo, macellaio, pescivendolo di fiducia. Tutta la merce deve essere fresca. Facciamo principalmente pizza con un forno a legna a pietra con materie prime semplici, fresche, genuine ma soprattutto locali. Gli stessi principi vengono applicati nella ristorazione, la nostra è una cucina semplice e genuina fatta di prodotti naturali.Rispettiamo la storia del Carpaccio, era conosciuto in tutta la provincia come pizzeria, quando l’ho riaperto il mio obiettivo era quello di tirare fuori dalla memorie delle persone la storia di questo locale: bello, accogliente, caldo, spazioso, quindi ho sfruttato questo ricordo.

Col restyling eseguito si è dato vita ad una veranda esterna, prima utilizzata solo nel periodo estivo, sfruttabile anche in inverno, permettendoci così di avere più posti a sedere. In occasione delle festività natalizie stiamo organizzando qualcosa di semplice, l’importante è ritrovarsi con gli affetti più cari e gli amici.

I nostri collaboratori devono lavorare divertendosi, essere educati con i clienti, con familiari, far sentire i nostri clienti a loro agio, come se fossero a casa loro e i nostri clienti devono sposare questa nostra filosofia.

Biagio Caggia

 

Un po’ di storia

 
 

A raccontarci la storia dell’antico palmento è Tito Campo «un mio antenato, Salvatore Campo, acquistò dei terreni in contrada “u desiertu”, ancora oggi chiamata Contrada Deserto, nel 1806 vi costruì un palmento, resosi necessario dalla presenza di vigneti estesi, poiché l’unica fonte di reddito era il vino. Pertanto nella proprietà furono costruiti: un forno, dei contenitori in cemento della capacità di 25mila litri, un palmento a dù spaddi (due spalle) che permetteva di pigiare contemporaneamente l’uva di due diversi clienti ed il mosto finiva in altrettanti tini. Ricordo ancora quando dodicenne mettevo degli stivali per pigiare l’uva, vi era anche una stalla per i cavalli e gli asini che portavano sul dosso i “canciddi” (ceste) contenenti l’uva che veniva messa in un vecchio tornio in pietra, del diametro di un metro e pesante 3 quintali, appesa ad una vita elicoidale, portando il mosto nei tini. A volte si usava il metodo 24ore, cioè il mosto pigiato veniva messo insieme alle bucce finiva in un tino centrale per un giorno e poi messo sotto pressa per ottenerne una qualità superiore. Attraverso un piccolo canale in pietra il vino arrivava alle botti. All’imbrunire il mosto, posto dentro le otre e caricate sui carri, si portava verso Comiso. Per me era un divertimento, chiaramente  vivevo il lavoro nel ruolo di proprietario. La vendemmia durava da metà settembre a metà ottobre e di notte sentivo i carretti passare dalla strada e il calpestio degli animali, mentre in inverno iniziava la potatura delle viti e delle fascine veniva messe all’interno dei tini affinché si conservassero meglio oppure si portavano a casa per come legna da ardere per il forno. Si usava fare un concentrato di mosto, facendolo bollire e ribollire, si metteva dello zucchero nella botte ed in occasione della festa di San Martino si doveva fare a “tramùta”, per cui si svuotavano le botti, si toglievano i residui dal fondo e si vendevano. Si faceva anche “a sulfata” cioè con una ciotola si prendeva dello zolfo per far asciugare la botte. Poi negli anni ’50 la proprietà fu venduta».